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Intervista a Giuliana Chiorrini, moglie dell’infettivologo Carlo Urbani

IN OCCASIONE DELL’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL MEDICO E MICROBIOLOGO CARLO URBANI, AVVENUTA IL 29 MARZO 2003, PUBBLICHIAMO L’INTERVISTA ALLA MOGLIE, SIGNORA GIULIANA CHIORRINI, RILASCIATA AGLI ALUNNI A. BUGARI, M. MESSINI, E. STACCHIOTTI E V. VITIELLO, DELLA SCUOLA MEDIA SAN VITO.



Carlo Urbani è noto a tutti noi come l’infettivologo che contribuì a identificare la SARS, la Sindrome Respiratoria Acuta Severa, responsabile di 8000 contagi e 775 morti tra il 2002 e il 2003 nell'estremo Oriente. Per lei che ha vissuto al suo fianco per molti anni, chi era Carlo Urbani?

Prima di tutto era un medico che aveva sempre avuto il desiderio di aiutare le persone che stavano male e, quindi, si è laureato e si è specializzato in malattie infettive, perché il suo sogno era curare le persone più bisognose in Africa e nei Paesi poveri. Era anche un marito e padre di tre figli, una persona come tante, attento alla famiglia oltre che al proprio lavoro.


Suo marito è stato per anni consulente dell’OMS per il controllo delle malattie parassitarie nel sud est asiatico. Le sue scelte professionali hanno coinvolto anche la famiglia?

Sì, lui prima è stato medico di base, poi ha lavorato all’ospedale di Macerata per dieci anni. Nello stesso tempo, era anche consulente dell'OMS e organizzava missioni di lavoro nei Paesi in via di sviluppo. Inizialmente ha fatto anche delle esperienze con Medici Senza Frontiere. In questo periodo anche noi, come famiglia, siamo partiti con lui per Phnom Penh, perché il progetto era annuale. C'erano anche i nostri figli Tommaso e Luca; quest’ultimo aveva appena un anno e mezzo. Siamo arrivati in Cambogia seguendo Carlo, che si occupava in quel periodo della schistosomiasi, una malattia che colpisce soprattutto i bambini, facendogli gonfiare la pancia. È causata da un parassita che sta nell'acqua, nelle rocce e che entra nell'intestino. In quelle zone i bambini lo prendono facilmente, perché nell'acqua fanno un po’ tutto: si lavano, vanno al bagno, le mamme lavano le pentole... Quindi Carlo si occupava di studiare questa malattia parassitaria e la scelta di trasferirsi in Cambogia naturalmente l'ha fatta insieme a noi.


Che ricordi ha del periodo in cui avete vissuto in Vietnam?

Ho dei ricordi bellissimi, perché sono stati momenti in cui la famiglia era molto unita e soprattutto i figli Tommaso, Luca e Maddalena si erano inseriti benissimo nell'ambiente locale della capitale, Hanoi. Maddalena addirittura frequentava l'asilo vietnamita; lei era l'unica straniera e aveva acquisito tutte le abitudini degli altri bambini: mangiava con le mani, era scalza, dormiva per terra. Le insegnanti erano molto felici della sua presenza.

Luca e Tommaso hanno frequentalo la scuola francese, perché la scuola dell'obbligo era giusto che la facessero in inglese e in francese. È stata un'esperienza bellissima, perché quando Carlo aveva tempo ci portava nei villaggi, partivamo con il fuoristrada e facevamo delle gite. Ogni gita era particolare perché Carlo, ovunque andasse, non si fermava a guardare solo l'aspetto esteriore. Entravamo nelle capanne, le persone ci accoglievano, perché i vietnamiti sono un popolo molto accogliente e, nonostante abbiano tanti problemi, sono sempre sorridenti e cercano di aiutarti come possono. Mangiavamo con loro: ci preparavano i pasti, ci accoglievano nelle loro case, abbiamo vissuto proprio intensamente quel periodo, quindi sia io che i miei figli abbiamo dei bellissimi ricordi, tant'è che spesso ritorniamo ad Hanoi per ritrovare le persone che abbiamo lasciato.


Quando seppe dell'epidemia di Sars, vedendo che suo marito si impegnava con tutte le sue forze per debellare questa malattia, cosa pensò? Era preoccupata?

Sì, ero molto preoccupata. Il 28 febbraio 2003 Carlo è stato chiamato dall’ospedale francese di Hanoi; pur non lavorando in ospedale, lo hanno chiamato perché sapevano che lui aveva molta esperienza nel campo delle malattie infettive ed avevano un paziente, un caso grave che non sapevano come trattare. Non capivano cosa avesse.

Carlo si è subito precipitato, non ci ha pensato due volte anche se non era il suo compito. Si è reso subito conto che era una malattia diversa, perché era contagiosa e colpiva le vie respiratorie. Le settimane precedenti aveva sentito dire che in Cina c'era una malattia particolare, ma non conosceva i dettagli. Solo dopo si è scoperto che proveniva dagli animali, dallo zibetto. Ha compreso di essere di fronte a qualcosa di nuovo, ha preso tutte le precauzioni necessarie e ha cercato di circoscrivere l’epidemia. Ha contattato il governo e ricordo che ha faticato tanto per convincere il governo vietnamita a chiudere gli aeroporti, la prima cosa da fare per evitare che si diffondesse il contagio. Ha cercato di rintracciare tutti coloro che erano stati a contatto con la persona malata, ricostruendo tutti gli spostamenti ad Hong Kong, dove l’uomo era stato per affari. Ha fatto una ricerca generale. Alla fine era molto stanco, ma aveva convinto il Governo ad accettare i suoi consigli, d’accordo con l’OMS a Ginevra, con la chiusura delle frontiere, primo passo per circoscrivere la malattia. Io naturalmente ero preoccupata, perché Carlo tornava a casa tanto stanco, passava tutto il giorno in ospedale. Ero preoccupata anche per noi, ma lui ci rassicurava, ci diceva di stare tranquilli. Se avesse saputo che era pericoloso, ci avrebbe fatti partire.

Poi un giorno, mentre era in volo verso Bangkok, si è reso conto che era stato contagiato. Aveva la febbre e la tosse. Noi siamo rimasti ad Hanoi, dove i ragazzi continuavano ad andare a scuola. Dopo una settimana, però, abbiamo capito che lui stava peggiorando, nonostante ci tranquillizzasse dicendo che tutto si sarebbe sistemato. Poi una sera ho deciso di raggiungerlo. Ho mandato i figli in Italia, mentre io sono andata a Bangkok, dove mi sono resa subito conto che la situazione era molto critica. Sono arrivata il 19 marzo e sono rimasta lì fino al 29, giorno in cui lui è morto.


I suoi figli sono stati influenzati dalla figura del padre nella scelta del loro percorso professionale?

Nessuno dei tre figli ha studiato medicina, però Tommaso, il più grande, lavora con associazioni umanitarie. Si è laureato in mediazione linguistica, ha frequentato un master di un anno, si è specializzato in logistica e ha cominciato a svolgere missioni nei Paesi via di sviluppo. È stato un anno e mezzo in Sud Sudan, in Iraq, in Nigeria e nella Repubblica Centrafricana. Anche Luca ha il desiderio di intraprendere questa strada, si è laureato, poi non so che cosa deciderà. Recentemente è andato in Senegal per seguire un progetto avviato dall’Aicu.


Carlo Urbani nel 1999 è stato insignito del Premio Nobel per la pace in qualità di presidente di Medici senza frontiere; come accoglieste questa notizia lei e la sua famiglia?

Nel 1999 Carlo lavorava a Macerata nel reparto Malattie Infettive. La notizia lo ha reso felice, anche perché in quel periodo era iniziata la campagna per il diritto ai farmaci essenziali, di prima necessità.

Medici Senza Frontiere è un'associazione presente in tutti i Paesi del mondo: la delegazione a Oslo era molto numerosa. La cerimonia è stata molto bella e, al rientro, Carlo è stato ospite diverse volte delle televisioni locali. Vi invito a leggere il discorso che aveva fatto il giorno che hanno ricevuto il Premio, perché ci sono delle frasi molto significative.


Cosa pensa del libro “Carlo Urbani. Una vita per gli altri”?

Ho avuto sempre molta difficoltà a leggere il tanto materiale che è stato pubblicato su Carlo. Questo però è un libro particolare, dedicato ai bambini, scritto in maniera semplice, ma con tante informazioni significative che fanno capire chi era Carlo, di conseguenza i bambini riescono, attraverso il racconto, a conoscere la sua storia che è molto importante.


Quale messaggio lascia Carlo ai bambini e ai ragazzi?

I messaggi sono tanti, il primo è l’importanza di dedicarsi agli altri. I ragazzi devono avere dei sogni, soprattutto in questi periodi. Carlo ci ha insegnato l'amore per il prossimo, l’impegno a vantaggio delle persone bisognose. Alla vostra età aiutare un compagno in difficoltà è il vostro impegno. Lui ha creduto tanto in questo.


Anche lei è impegnata nel volontariato?

Io sono volontaria nella Croce Rossa, perché sapere che posso donare un sorriso, una carezza a una persona malata, a un’anziana sola è la cosa più bella. Soprattutto nel momento in cui una persona sta male o è sfiduciata, avere qualcuno vicino la fa stare meglio. Questo è donare: un sorriso, un gesto, una carezza, una parola buona.

Tra voi ragazzi potete fare tanto: se c'è un ragazzo con delle difficoltà, mettervi a disposizione è un gesto di volontariato. Basta poco per far contento qualcuno.


Michele Messini, Alessandro Bugari, Edoardo Stacchiotti, Vittorio Vitiello

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